Chi mastica un minimo di ciclismo, conosce il significato del termine “Gran premio della montagna”. Tra i principali Gpm che i ciclisti percorrono di frequente al Giro d’Italia troviamo il Passo del Mortirolo, iconica salita che spesso ha sancito le gesta dei campioni a due ruote. Ecco, Seventh son of a seventh son rappresenta il Mortirolo della carriera degli Iron Maiden. Vediamo perché.
1988. Gli Iron Maiden sono reduci da un impressionante filotto di album e di tour; dopo un anno sabbatico in studio, ritornano sul mercato con un concept album, le cui caratteristiche racchiudono la summa della band britannica. Il tema portante del disco è permeato su di una storia pregna di mistero, magia e superstizione, con questo fantomatico figlio portatore di poteri e conoscenza, conteso dal Bene e dal Male in una lotta ultraterrena.
L’intro parlata di Bruce Dickinson introduce la velocissima Moonchild, una scheggia tra le più veloci della discografia della Vergine di Ferro. Galoppate di basso, scambi di assoli della coppia Smith-Murray e l’evocatività di Bruce si arrestano dopo oltre cinque minuti, lasciando spazio alla gemma Infinite Dreams. Un alone di magia fa da sfondo a un capolavoro di heavy che non deve forzare la mano in termini di velocità per arrivare al cuore. Inizia cadenzata e malinconica, poi il songwriting cambia registro e ci consegna la band al top della forma, con lo screaming del menestrello Dickinson che lacera l’aria e libera le briglia per il gran finale.
Can I play with madness è il classico singolone ed è forse il pezzo meno riuscito del platter, ma solo perché incastonato tra altre sette gemme.
La stupenda The evil that men do traspone in musica la tragedia shakespeariana di Giulio Cesare, grazie alla cavalcata di basso di Harris e a un ritornello che si stampa in testa:
“The evil that men do lives on and on”.
Il lato B si apre con la titletrack, articolata come una suite, il cui livello sfiora quello di Rime of the ancient mariner. Il taglio prog dona a questa song una magniloquenza sul cui valore non vi è alcun dubbio.
Il mid tempo che con echi medievaleggianti di The prophecy spezza un po’ il ritmo, senza peraltro calare il livello medio dell’album.
Non ho mai capito perché la band abbia riproposto pochissime volte dal vivo The Clairvoyant; il basso di Harris pare voglia bucare le cuffie e costituisce, assieme al fido scudiero Mc Brain, una sezione ritmica pregna di solidità, affiatamento e fluidità allo stesso tempo. Nota di merito per il sempre sorridente batterista, qui autore di una prova strepitosa, più varia ed estrosa del solito.
Chiude la cerimonia l’up tempo marziale di Only the good die young, chiusura di un cerchio che pare disegnato da Giotto.
Nota di merito anche per la splendida copertina di Derek Riggs, che suggella un disco stupendo, immortale e sicuramente irripetibile.
Il Mortirolo degli Iron Maiden.
Up the Irons!
“Can I play with madness? He said, You’re blind, too blind to see”.
🤘Album: Seventh Son Of A Seventh Son
🤘Gruppo: Iron Maiden
🤘Genere: Heavy Metal
🤘1988 – Prima stampa Ita
🤘Voto: 95/100