Ho sempre pensato che, nell’immaginario collettivo, i Deep Purple possano rappresentare (assieme ai Led Zeppelin e agli Ac/Dc) i maestri dell’hard rock.
Perchè? La risposta a fine recensione…
1972. Reduci da due album, In Rock e Fireball, che già di per sè erano bastati per issarli a portabandiera della musica pesante dell’epoca, i Deep Purple decisero di intraprendere un viaggio compositivo che li avrebbe consegnati direttamente alla storia.
Machine head fu registrato a Montreux, una cittadina sul lago di Ginevra (tenete a mente il lago, dopo vi servirà).
Come apripista, la puntina del vinile fa esplodere la traccia Highway star. Esiste una migliore opener? Ne dubito. Un riff che più hard rock non si può, sciorinato da Ritchie Blackmore, anticipa i vocalizzi micidiali di Ian Gillan, uno dei capostipiti del cantato in screaming.
Il funambolico singer canta di una folle corsa a bordo di una macchina da guerra, guidata da un pilota innamorato dei giri alti del motore. Straordinario l’assolo, il ritornello, l’insieme, il tutto insomma.
Il blues/funk di Maybe I’m a leo, dal ritmo sincopato e accattivante, precede la micidiale cavalcata hard rock di Pictures of home, pezzo sin troppo sottovalutato dalla band e quasi mai (sigh!) proposto dal vivo. Le rullate del fenomenale Paice stendono il tappeto rosso al duo Lord/Blackmore, veri deus ex machina del brano, che contiene gli stilemi classici del Purple style, pur non essendo mai stato uno dei loro cavalli di battaglia nelle esibizioni live.
Never before parla della più classica delle storie d’amore finite male (lei se ne va, lui rimane solo) e lo fa con un ritmo funk/blues da far tremare i polsi; il protagonista (già, nei Deep Purple tutti sono dei fuoriclasse) è il basso pulsante di Roger Glover, che scandisce il brano e lascia agli altri musicisti il suo spazio, pur ritagliandosi un ruolo da primadonna.
Lato B. Avete presente il lago di prima? Una sera il gruppo di Frank Zappa tenne un concerto presso il casinò di Montreux quando, durante lo show, scoppiò un incendio; Roger Glover, vedendo il fumo riflesso sullo specchio d’acqua del lago, notò il contrasto con il rosso del tramonto.
“Smoke on the water, a fire in the sky”.
È questa la genesi di una delle canzoni più note della storia del rock, Smoke on the water. Tirata d’orecchie a chi non conosce questo monumento sonoro, dotato di uno dei riff di chitarra più belli e orecchiabili di sempre.
Lazy, quasi una interminabile jam session tra i cinque fenomeni inglesi, è talmente bella da togliere il fiato, se mai ne è rimasto per gridare ai quattro venti la bravura dei Deep Purple. Spaziali.
E spaziale è anche la conclusiva Space truckin’, un viaggio onirico, in bilico tra progressive e hard rock. Il brano, in un crescendo rossiniano, deflagra in un ritornello da cantare a squarciagola. La canzone si presta talmente bene ai live tanto che non verrà più tolta dalla scaletta.
Ora, tornate alla domanda di inizio recensione e prendete come risposta la parola CLASSE. Questo disco non vi pare una chiara espressione della suddetta? I Deep Purple rappresentano la summa di quanto l’amalgama tra musicisti fenomenali (ahimè, anche primedonne) e l’ispirazione ai massimi livelli possa coesistere in una band.
Machine head può essere considerato il loro apice compositivo.
Forse anche dell’intero genere hard rock.
🤘Album: Machine Head
🤘Gruppo: Deep Purple
🤘Genere: Hard Rock
🤘1972, Prima stampa Germania
🤘Voto: 100/100