A sud del paradiso

A Sud del paradiso.

A Sud del paradiso. Gli Slayer vollero bissare il successo del brutale Reign in blood, ma cambiando diametralmente strategia. Innanzitutto, rallentando le ritmiche, ma appesantendole ulteriormente, dando all’ascoltatore sensazioni opprimenti. Poi le liriche: i temi portanti passano da satanismo, nazismo e serial killer all’esaminare quanto di più malvagio ci fosse nella visione, in apparenza perfetta e priva di peccato, del luogo al quale ambisce il bravo cristiano.

1988. Il combo californiano si consolida nell’olimpo del metal estremo, dopo aver contribuito a spargerne il seme e a innaffiarlo copiosamente.
South of heaven si apre con il lugubre arpeggio della titletrack, spiazzante per l’ascoltatore dell’epoca, ma non per questo meno maligno. Una struttura portante quasi doom permea l’intera canzone, sorretta da un cantato sguaiato ma efficace di Tom Araya, che culmina nel ritornello sulfureo:

 “On and on, south of heaven”.

I ritmi accelerano nella seconda parte, ma senza mai galoppare veramente, mantenendo un’atmosfera plumbea che si appoggia alla perfetta amalgama di due chitarre al vetriolo (Kerry King – Jeff Hanneman), a un basso e una voce sulfurei (Tom Araya) e a un batterista che unisce la dinamite alla precisione del chirurgo (Dave Lombardo). L’apocalisse, testi compresi, di South of heaven trova nel suo fade out un attimo di respiro.
Mal ce ne incoglie, perché Silent scream affonda la sua lama nel nostro cervello con un riffing tagliente Slayer-style che non lascia prigionieri. L’architrave musicale del pezzo è più lineare rispetto al precedente, con Lombardo a fare la voce grossa dietro le pelli e Araya che ci parla di un incubo occorso a un malcapitato bambino.

“Nightmare, the persecution; a child’s dream of death”.

L’infante viene attanagliato da un tormento che non lo mollerà più.
Una doppietta di canzoni iniziali che fanno raggelare il sangue.

Il mid tempo di Live undead parte in fade in con un riff raggelante, sorretto dai colpi sui fusti di Lombardo e termina con un’accelerazione tramite una serie di solos, sciorinati in rapida successione.

Vorrei citare altri tre brani, che spesso faranno parte delle loro scalette dal vivo:

  • Mandatory suicide è meno violenta delle usuali mitragliate della band, tuttavia risulta accattivante per l’alone di pesantezza di cui è pervasa. Al doppio pedale e allo shredding feroce si sostituiscono ritmi rallentati e tematiche anche qui per nulla leggere (“We are fuc…’ Slayer, baby!”), vedasi in questo caso il suicidio. Una prova di maturità.

  • Ghosts of war rimarca l’attitudine dell’ensemble americano nel rivendicare lo scettro di band più veloce ed estrema dell’epoca. Il tupa tupa tipico del thrash metal la fa da padrona e ci conduce in un turbinio di ritmiche sincopate, solos cacofonici e testi che narrano dei fantasmi di soldati delle guerre passate. Tritaossa.

  • Dissident aggressor. Gli Slayer propongono una cover dei loro mentori Judas Priest, qui eseguita alla loro maniera, ma senza discostarsi troppo dall’originale. La loro bravura sta nel mettere in scena un’atmosfera pregna di pathos e nel proporre dei suoni di chitarra del duo Hanneman (r.i.p.) – King che intendono (e riescono) omaggiare quelli dei loro idoli Glenn Tipton e K.K. Downing. Chapeau.


In conclusione, un disco che ogni metallaro deve approcciare almeno una volta nella vita.


Per scoprire cosa si cela a Sud del Paradiso.



🤘Album: South of Heaven

🤘Gruppo: Slayer

🤘Genere: Thrash Metal

🤘1988, Prima stampa Usa

🤘Voto: 91/100


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Filippo Bini autore romanzi ambientati a Bologna
Filippo Bini

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